Anche se con un po’ di ritardo rispetto a quando l’abbiamo vista, dobbiamo proprio parlare della mitica SWM Jumbo di Claudio Rabacchin.

Trattandosi di un veicolo di oltre 35 anni fa direi che un ritardo di 15 giorni può essere considerato trascurabile.

Il tempo trascorso dalla comparsa di questa motocicletta è anche abbastanza lontano da poter raccontare degli accorgimenti tecnici che all’epoca dei fatti sarebbero stati coperti dal segreto progettuale.

La SWM Jumbo nasceva dopo i già notevoli successi della SWM 320, vincitrice della sei giorni di Scozia con Gilles Burgat e seconda in una manche del campionato del mondo con Danilo Galeazzi, che montava un motore di cilindrata di poco inferiore ai 280 ma che, di fronte alle richieste di potenza tipiche di alcuni ostacoli del campionato del mondo, sembrava poter essere ulteriormente incrementata.

Tutti gli appassionati sanno che il motore usato su quella moto è il rotax, con immissione a disco rotante e cioè con un disco, coassiale al volano che libera, a valle del carburatore, l’ingresso della miscela aria benzina nel carter da cui attraverso i travasi accede alla camera di scoppio.

Lo stesso tipo di motore, dopo aver equipaggiato innumerevoli modelli vincitori nell’enduro di vari campionati, è stato utilizzato sull’Aprilia Climber arrivando a vincere il Mondiale nel 1992 con Tommy Avhala.

Ma torniamo una decina di anni prima. Dario Seregni, lo sviluppatore di questa e molte altre moto da trial, si è trovato alle prese con un motore che, oltre ad avvicinarsi ai fatidici 350 cc, aveva una caratteristica in seguito mai più sperimentata nel trial.

Oltre all’immissione a disco rotante, era stata prevista una immissione lamellare direttamente nel carter.

Questo, per gli standard dell’epoca, seppur con un po’ di ritardo rispetto all’apertura del gas, forniva una spinta sulla ruota difficilmente controllabile.

A portare questa moto in gara era Bernie Schreiber, la cui corporatura ed il cui stile permettevano di controllare un motore tanto potente.

Danilo Galeazzi si equipaggiò di una moto con i vantaggi del nuovo telaio messo a punto da Seregni ma lasciando il motore da 276 che per quasi tutti gli ostacoli dell’epoca era più che sufficiente, tanto che senza ulteriori maggiorazioni fu poi montato sulle aprilia dopo l’abbandono del motore Hiro 320.

Però, pare che furono in molti a non riuscire a controllare l’esuberanza di questo motore Jumbo a “doppia alimentazione” e prima dell’anno successivo, la stessa SWM diffuse una modifica che consentiva di giovarsi dell’aumento di cilindrata senza l’apporto dell’ammissione a lamelle.

La modifica consisteva in un annegamento con pasta bicomponente di tutto il volume occupato dal pacco lamellare permettendo alla miscela aria benzina di passare solo dal condotto che porta al disco rotante.

E qui entra in gioco il Rabacchini.

Seppur occupandosi di moto, motori e modifiche varie soprattutto per passione, da quarant’anni ha fatto esperimenti su tutto o quasi quello che può essere modificato nelle moto da trial che ha avuto.

All’epoca era in contatto con tecnici che orbitavano nell’ambito della squadra corse SWM, per chi non ricorda stiamo parlando di una delle moto da trial più vendute al mondo e la numero due del campionato mondiale dopo il prototipo Honda di Eddy Lejeune.

La moto che vedete in foto è il prodotto di vari studi da lui sviluppati ed applicati.

Quello che più velocemente salta all’occhio è che è una moto monoammortizzatore, una costante per questi tempi ma assolutamente una novità per l’epoca.

Vero è che la SWM è uscita con un veicolo monoammortizzato verso la fine dei suoi anni ma… era già un paio di anni dopo questa creazione del Rabacchin.

Sarebbero necessarie altre foto per illustrare in che modo, e dopo più tentativi, Rabacchin è riuscito a risolvere il problema dell’eccessiva leva che il leveraggio del mono trasmetteva al suo attacco piegandolo. In poche parole si è servito di un perno tornito dal pieno ed imbullonato parte-parte sulle piastre esterne del telaio (quelle che arrivano alle pedane) e modificando la forma della cassa filtro ha creato lo spazio per metterci il famoso monoammortizzatore inclinato, (come lo erano tutti all’epoca, il primo mono verticale fu quello di Tarres, su un prototipo TR 32 che debuttò al trofeo delle nazioni di Piano Rancio del 1985).

Il mono montato da Rabacchin è quasi realizzato su misura, nel senso che ha dovuto adattare parti di ammortizzatori già esistenti.

Altra modifica, meno evidente, il ritorno ad utilizzare l’immissione lamellare, togliendo il blocco suggerito dalla casa e lavorando su carburazione ed altre messe a punto per avere più potenza ma con una erogazione gestibile, che per l’epoca era comunque esplosiva ma mai come le moto attuali.

Tutto questo lavoro che benefici ha portato, oltre a quelli evidenti del motore più pronto?

Un aumento di escursione alla ruota posteriore davvero notevole, comparabile con quello dei mono moderni, che sarebbe stato davvero utile ai piloti professionisti negli ostacoli che le moto dell’epoca a due ammortizzatori facevano davvero fatica ad assorbire.

Per creare lo spazio necessario alla aumentata escursione è stato necessario qualche aggiustamento delle strutture, che comunque non si nota senza le spiegazioni dell’autore.

Se tutto questo non fosse sufficiente, il Rabacchin, considerando che quello che faceva era una sperimentazione e non essendo sicuro dei benefici fino a lavoro concluso, ha mantenuto le caratteristiche che permettono di tornare a montare i due ammortizzatori se fosse necessario.

Speriamo di non aver scritto qualcosa di diverso da come ci è stato raccontato alla gara di Lasnigo, dove nel clima tipico delle gare di quasi 40 anni fa Claudio Rabacchin ha portato questo monumento di ricerca trialistica che ci ha fatto rivivere un po’ di quegli anni mitici dove il trial era in espansione.

Devi essere connesso per inviare un commento.
Menu