“Se riesci vai a fare la gara del TATA di Rieti”, mi dicevano.

E avevano ragione, la componente agonistica vera e propria in cui la fortuna, e magari anche un po’ di bravura, ha consentito di lasciare soddisfatti praticamente tutti i piloti che hanno affrontato la lunga trasferta rietina fino al paesino di Monte San Giovanni in Sabina, si è sommata ad altri aspetti che hanno reso entrambe le giornate davvero memorabili.

L’ospitalità del gruppo organizzatore, molti simpatici elementi sotto la regia di Maurizio Aluffi, si è davvero distinta per il clima amichevole che era già presente nelle precedenti edizioni e si è confermato quest’anno.

Parlando con alcuni dei personaggi che sostengono la gara anche a livello politico ed amministrativo abbiamo scoperto che questa manifestazione, sconosciuta al nord, è già alla sua trentatreesima edizione, un risultato sicuramente importante.

Una particolarità di quegli eventi organizzati con questo spirito è il fatto che la gara arriva a ricomprendere anche la cena del giorno prima e tutti i contorni festosi che si aggiungono alla gara vera e propria.

Come soggetto nuovo del gruppo di partecipanti, la presenza di chi scrive è stata salutata con amichevole sorpresa accompagnata, dopo i saluti, dalla domanda: “Con che moto corri?”

Per la risposta si torna a ringraziare uno dei principali organizzatori, Maurizio Aluffi, che ha messo a disposizione un Fantic 240 senza nemmeno sapere chi l’avrebbe dovuta usare.

Come in ogni raduno di appassionati, l’avventura comincia con il viaggio ed il percorso di avvicinamento al luogo dell’incontro, che dopo una cospicua permanenza sull’autostrada A1 imbocca una serie abbastanza tortuosa di stradine di collina che non diventano mai fastidiose ma mostrano che il caotico della civiltà moderna è a distanza sufficiente.

Quando siamo arrivati era già buio, la luce era sufficiente a distinguere i camper dei trialisti parcheggiati nelle vicinanze dell’ormai celebre ristorante Capparella, che funge da base di partenza per la gara.

Le specialità locali hanno soddisfatto i palati dei trialisti giunti da lontano, in maggioranza piemontesi ma contrastati nel numero da un nutrito gruppo di emiliani che insieme ai veneti non fanno mai mancare l’ilarità ed in questo ultimo caso il vino.

Solo alla mattina abbiamo potuto renderci conto del paesaggio, gli oltre ottocento metri di Monte San Giovanni permettono di gustare un paesaggio contornato di monti dalle cime arrotondate o addirittura orizzontali, caratterizzati da parti brulle e disseminate di frange di roccia friabile che nell’immaginario trialistico si popolano di canaloni percorribili improvvisando tra curve e traversi di contropendenze.

Ed infatti tale è stata la gara, per entrambe le giornate, zone varie alternando bosco, pineta, prato con asperità in pendio e piccole lastre, e canaloni rocciosi di lastre più o meno friabili.

Un trasferimento di una decina di chilometri portava i concorrenti ad apprezzare i panorami appenninici in cui, finalmente, la parte costruita era solo una piccola frazione di ciò che è visibile, alla faccia di chi parla di sovrappopolazione.

Transitando i sentieri petrosi sui crinali di queste colline, il prato tenuto a giardino grazie al contributo degli animali al pascolo, sui quattro orizzonti si scorgono le strade ghiaiose che disegnano i pendii erbosi delle altre montagne.

Le mucche che abbiamo avuto l’onore di incrociare, dal canto loro, sembravano perfettamente a loro agio al passaggio delle moto da trial, merito forse dal fatto che i trialisti del posto sono sempre stati educati con loro.

Le zone erano mediamente molto più lunghe di quelle che siamo abituati a tracciare la Trialario, scorrevoli e lineari oppure tortuose ma sempre osservate da due giudici proprio per la loro lunghezza che spesso superava i settanta metri di sviluppo.

Sia nel boschivo che nel roccioso le curve erano la principale componente, come ci si aspetta da una gara per moto antiche, curve anche molto strette e in condizioni di pendenza o di cambi di pendenza molto marcati che richiedevano il mantenimento di una compostezza notevole per non perdere l’aderenza.

Come sta accadendo anche al Trialario, molti giudici in rosa, cosa che stupisce favorevolmente per la disponibilità di queste ultime a partecipare ad una compagine sportiva tipicamente maschile.

Una cosa che ha stupito in merito al livello di difficoltà delle zone è l’impegno richiesto per alcune parti di percorso che erano comuni alle categorie bianche gialle e verdi, discese per nulla banali e a tratti anche caratterizzate da radici trasversali ed altre asperità rocciose non molto marcate ma comunque da affrontare con estrema cautela ed impressionanti al colpo d’occhio.

I piloti di tutte le categorie sembrano tra l’altro davvero abituati a questo tipo di percorsi, su curve e dislivelli anche ripidi da affrontarsi in pieno carico di aderenza era difficile vedere i migliori di ogni categoria posare i piedi; per passaggi impegnativi con sequenze di radici e lastrine che davano gran soddisfazione a passarci a zero, i concorrenti con moto e certificato di nascita parecchio più antichi dei miei passavano a zero, apparentemente facendo anche meno fatica.

Tutto questo su percorsi che non apparivano affatto accessibili a zero penalità da molti… eppure, l’affiatamento con questi antichi veicoli preparati con certosina puntualità permetteva una precisione di guida imbarazzante ed ecco SWM, Yamaha, Aprilia e anche Bultaco ed Ossa contrapporsi alle volte vittoriose ai Fantic ed a piloti più giovani.

Anche se la classifica è uno solo degli aspetti di queste gare, spiace non menzionare la sfida all’ultima zona che ha coinvolto i protagonisti delle varie categorie, tutti vincitori con pochissimi punti, ma secondo quello che si è compreso lo spirito di questo tipo di gare è permeato della componente agonistica solo per una piccola parte, mentre la festa che accompagna le premiazioni è più colorita dalle offerte di cibo che i vari team mettono a disposizione.

Su questo vale la pena di menzionare i settecento arrosticini che il team sabino ha contribuito a preparare, la forma di formaggio piemontese che ha trovato posto sulle fette di pane intinte in un olio di oliva con sale, gustoso e dolce come pochi, torte e cioccolato cuneese con il ruolo di dessert e varie bottiglie che hanno innaffiato il tutto.

In quanto a vino, come non celebrare quello donato dal team Amici del Prosecco, artigianale e senza solfiti, una gioia inebriante per i concorrenti che a stomaco ancora vuoto devono ritemprare le fatiche della gara.

In segno di gemellaggio con un rappresentante del Trialario, una piccola chicca è stata donata a Maurizio Aluffi, personaggio che ha coordinato questo evento soprattutto sul piano tecnico: un paio di stivali Styl Martin utilizzati da Matteo Grattarola durante l’anno in cui ha vinto il mondiale Trial 2 con la Montesa.

Eccoci quindi alla fine del TATA, iniziato con la splendida gara di Mandello e terminato in questa località così affine al trial ed alla tranquillità che la montagna sa offrire, con la voglia di tornare in questi posti e passare ancora da queste esperienze di gara festosa.

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